giovedì, Marzo 28, 2024

HomeBlogrollIl Mercato del lavoro in Italia: analisi della gestione delle imprese delle...

Il Mercato del lavoro in Italia: analisi della gestione delle imprese delle risorse umane

Il mercato del lavoro italiano è fortemente evoluto negli ultimi anni a seguito di una serie di riforme della normativa del lavoro dagli anni 90. Tutte le novità giuridiche hanno portato avanti un percorso coerente volto a rendere meno rigido il sistema italiano. Dal dopoguerra fino agli anni 80 le lotte sindacali e i partiti di Sinistra avevano ottenuto una serie di diritti per i lavoratori, che crearono una serie di tutele e un sistema normativo molto rigido e vicino ai bisogni dei lavoratori.

Visione del legislatore e motivazioni economiche delle riforme liberiste.
La visione politica ed economica a partire dagli anni 90 ha coinvolto numerosi governi di colori politici molto diversi:dal centro sinistra, al centro destra, fino al governo a trazione Lega e Movimento 5 Stelle. Possiamo riscontrare una straordinaria coerenza con il pensiero di ispirazione liberale, i cui storici protagonisti furono Regan (Presidente degli Stati Uniti) e la Thatcher (Primo Ministro della Gran Bretagna).

Nella visione liberista e liberale si ritiene che lo Stato debba essere il meno possibile presente nel mercato privato, in quanto autonomamente esso tenderà a trovare equilibri ed eccellenza grazie a meccanismi interni, legati ai bisogni e azioni degli attori economici. Quindi si è ritenuto che restituire la variabile “numero della forza lavoro” in mano ad imprenditori o CDA potesse permettere di orientare meglio le proprie strategie aziendali per massimizzare i profitti e mantenere competitiva o attiva la propria attività economica. L’assunto di base è che bisogna poter licenziare più facilmente: per mantenere stabile economicamente l’azienda o per trovare persone più qualificate per innovare e mantenersi competitivi.

Mercato del lavoro oggi nel 2019 in Italia: un nuovo modo di vedere il lavoro nelle aziende.
Dato per assunto che questo meccanismo normativo, molto difficile da cambiare per assenza di risorse, bisogna capire cosa comporta per l’economia in Italia. Oggi viviamo un cambiamento epocale nel modo di cercare lavoro e di lavorare nelle aziende.

Prima novità: settore pubblico.
La riduzione delle persone occupate nel pubblico. Se infatti nel passato questa quote di persone rappresentava insensatamente un numero molto elevato con ruoli e requisiti poco attinenti al lavoro, oggi è totalmente diverso. I livelli di accesso richiedono sempre maggiori requisiti e la concorrenza tra i partecipanti è molto elevata, anche se non sempre sono i migliori ad essere assunti in quanto i processi sono molto lenti e in taluni casi ambigui (per non dire criminosi).

In passato chi lavorava nel pubblico in molti casi viveva un “beneficio” politico legato alla necessità solo politica del partito della Democrazia Cristiana di mantenere il consenso offrendo posti di lavoro e contenendo l’espansione dei partiti ad esso alternativi. Il problema di questo meccanismo è che ha creato molti istituti pubblici poco efficienti: sia perché il numero di persone era eccessivo; sia scarsamente qualificato e soprattutto demotivato. Tutto questo ovviamente aumentando irresponsabilmente il debito pubblico, che nei soli anni 80 è cresciuto dal 57% del 1980 al 95% del 1990.

Questa impostazione non era sostenibile economicamente e dunque oggi chi va in pensione e lavora per enti statali o parastatali tendenzialmente non viene sostituito. Per esempio il rapporto dovrebbe essere di uno a tre con “quota 100”).

Seconda novità: settore privato.
Il settore privato tende sempre di più a utilizzare forme di lavoro flessibile (tirocini, apprendistati, partite IVA, lavori a progetto, voucher ecc.), per ridurre il costo del lavoro e tenere le persone in organico in relazione alle fasi cicliche economiche. L’assunto di base è tentare di pagare il meno possibile i lavoratori, anche snaturando la natura legislativa delle forme di contratto, e variare il numero di forza lavoro a seconda delle vendite del proprio prodotto o servizio (o più in generale lo stato di salute dei bilanci aziendali).

Ci sono delle Problematiche del lavoro flessibile applicate al contesto italiano nelle impresa. Questo meccanismo non è in sé sbagliato, in quanto lo scenario economico vive ritmi e paradigmi diversi rispetto al secolo scorso. Ci sono però delle perplessità da considerare. Sicuramente gli economisti posso sostenere che questo meccanismo sia ormai tendenzialmente diffuso in tutta Europa e in generale nei sistemi capitalistici tendenzialmente occidentali (USA e anche Giappone). Il problema di fondo è che il mercato del lavoro italiano ha delle proprie peculiarità e rende almeno per il momento complesso il funzionamento di questo tipo di sistema economico e del lavoro.

Si pone infatti la questione del numero di posti di lavoro effettivamente presenti nel nostro tessuto economico-sociale per la creazione di un lavoro sempre più flessibile e con crescite di tipo orizzontale. I processi di incontro tra mercato dell’offerta e domanda del lavoro sono infatti estremamente lenti sia per motivi burocratici, sia per l’arretratezza dell’uso delle strategia digitali, sia per differenze tra le competenze di chi cerca lavoro e chi lo offre. Inoltre i settori merceologici principali italiani sono spesso a bassa competitività e sviluppo tecnologico (come quello alimentare e tessile), rispetto ad ambiti come quello della robotica. Questo comporta che la richiesta di forza lavoro specializzata e che possa creare innovazione è molto limitata, anche per un tendenza conservatrice delle classi dirigenziali aziendali.

Inoltre va anche detto che i sistemi statali che partecipano per il controllo e il supporto a questi processi (dall’INPS fino ai centri di collocamento) sono spesso in difficoltà per assenza di personale competente o numerico. Inoltre si apre qui una riflessione sulla lentezza burocratica e i suoi costi per imprese e Stato legata anche al fenomeno corruzione e l’incertezza del diritto.

Sicuramente è anche una questione culturale. Il concetto di delega dei poteri decisionali in seno alle aziende non si è ancora sviluppato in modo sistematico. La forma mentis comune ha portato a plasmare l’immaginario dell’imprenditore come una sorta di supereroe, che deve svolgere tutto e controllare tutto. Una logica più vicina al padronato che alla gestione manageriale.

Basti pensare alla visione “negativa” che si ha delle agenzie per il lavoro, considerate ancora come “interinali” o fonte di “sfruttamento” che offrono molti servizi aggiuntivi molto utili e soprattutto rapidi, come si può evincere dall’uso frequente di grandi agenzie per il lavoro multinazionali nelle principali economie globali sia un Europa che oltre oceano.

L’imprenditore medio italiano ritiene infatti che “investire” in professionisti delle risorse umane sia un costo inutile e che possa lui scegliere da solo, mentre svolge altri numerosi compiti o delegare a “capi area” improvvisati selezionatori. Emerge dunque il classico paradosso della razionalità di breve periodo che diventa dannosa e irrazionale nel medio e lungo. Risparmiare sul compenso di un recruiter professionista comporta il rischio alto di assumere una persona “sbagliata” per il proprio business con danni potenzialmente enormi. Questo incertezza riguarda sia per il costo della persona, sia la sostituzione con una perdita di tempo e danni causati da una performance lavorativa insufficiente, sia effetti negativi sull’ambiente lavorativo.

In Italia il tournover della forza lavoro è basato spesso su logiche di bilancio di breve periodo, dunque licenziando o lasciando andare via personale che si è formato ed inserito in azienda. Un caso comunissimo è lo stage non confermato o contratto determinato che non diventa indeterminato. Questa modalità di gestione sta portando le aziende a perdere capitale umano e sociale con danni enormi sulla qualità/quantità del lavoro e i connessi livelli di futuro fatturato. In pratica si sta perdendo competitività, perché le persone vanno via dalle aziende e portano con sé tutte le conoscenze personali e acquisite nell’esperienza di lavoro. Inoltre è possibile anche che l’ex dipendente vada a lavorare per la concorrenza (italiana e straniera) con una beffa ulteriore.

In altri contesti le risorse non vengono nemmeno valorizzate o formate, proprio perché già è chiaro che tra 6 mesi lo stage di turno non verrà confermato, relegando lo stagista ad una risorsa “sotto-occupata” rispetto alle sue competenze.

Il valore aggiunto ed unico delle risorse umane nella società digitale.
Nel sistema economico vigente viviamo l’affermarsi di una ricchezza e business, legata sempre più alla gestione delle informazione (spesso definito come “nuovo petrolio”) e la smaterializzazione dei processi produttivi. Ritorna dunque prepotentemente l’assunto di uno dei fondatori dell’analisi economica Marx: solo l’essere umano che lavora che crea valore aggiunto che diventa potenzialmente profitto per l’impresa.

Oggi la risorsa umana è ancora più rilevante nelle imprese, perché spesso è essa stessa l’impresa o un suo ramo. Questo è vero per l’economie, come la nostra, sempre più legata al mondo dei servizi. I processi digitali e tecnologici inoltre stanno riducendo sempre di più i lavori fisici e creando sempre più “analisti” dei processi, non più esecutori. Il livello del lavoro sarà dunque sempre più legato alla qualità e al valore aggiunto legato alla singola risorsa umana e le sue tipologie di intelligenza. Pertanto non trattenere persone che sono inserite nel contesto aziendale sistematicamente, risorse che hanno sviluppato competenze e assorbito cultura aziendale con buoni risultati, è un’azzardo economico.

L’importanza della formazione continua delle risorse da parte delle aziende.
Sicuramente l’evoluzione del mercato richiede un’evoluzione rapida delle competenze tecniche, ma più che assicurarci queste competenze bisognerebbe focalizzarsi sulla capacità di impararle. Oggi un lavoro si fa in questo modo, tra 5 anni potrebbe essere stravolto e rendere le competenze tecniche utilizzate obsolete. Dunque una risorse è considerabile utile all’impresa se possiede le soft skills necessarie, che dovrebbero essere le principali considerate in fase di definizione del profilo lavorativo da assegnare per la ricerca di candidati esterni o nel valutare il proprio personale in organico. Tali abilità trasversali infatti sono essenziali per raggiungere gli obiettivi aziendali con scenari economici che mutano rapidamente, in quanto permettono di imparare le nuove competenze tecniche (hard skills) con la giusta formazione e politiche di Change Managment, introdotte dall’azienda.

Tema fortemente carente in Italia culturalmente è proprio la formazione. Nel secolo scorso c’era la convinzione che una volta terminato il percorso di studi (università o liceo che sia) finiva la fase di formazione di una persona. Oggi questo pensiero non solo è sbagliato, ma anche pericoloso.

La società e la quotidianità stanno cambiando e in maniera rapidissima sia nelle aziende, le strade e le nostre abitazioni: si pensi per esempio al passaggio nel mercato musicale da giradischi alle playlist di Alexa o Google Home in meno di 50 anni, ma potremmo citare il settore delle automobili, pc, intrattenimento ecc.

Dunque è necessario che la formazione sia un processo che faccia parte anche della fase lavorativa degli italiani con serietà e una frequenza se non continua almeno ciclica. Fare corsi di aggiornamento (come nel caso degli ordini e albi professionali) finti o senza alcuna serietà porta alla percezione di tali momenti siano una perdita di tempo e non un momento di crescita, demotivando e inibendo l’apprendimento. La visione della formazione è vista come “secondaria” anche nell’ambito statale che tagli fondi per la ricerca e gli enti formativi quali licei, scuole ed Università.

Questo atteggiamento è presente anche nel settore privato, infatti uno degli strumenti meno sfruttati nel contesto aziendale e pressapoco sconosciuto in alcune aziende è la formazione finanziaria. Obbligatoriamente vengono versati per ogni dipendente dei contribuiti all’INPS (0,30%) per ogni dipendente che possono essere destinati (tramite iscrizione da parte del consulente del lavoro) ad un fondo inter-professionale, che si occupa di accumulare questi soldi e renderli spendibili per un progetto formativo predefinito o ad hoc in base alle esigenze aziendali. Le aziende già spendono quei soldi che versano obbligatoriamente e non li investe entro le tempistiche previste. Infatti i crediti non utilizzati dopo un periodo stabilito per legge vengono assorbiti dell’INPS stessa.

L’utilizzo di tale strumento è poco diffuso in Italia. Volendo ampliare l’analisi del mercato della formazione bisogna anche aggiungere che i livelli di e-learning possono rifarsi anche a corsi o webinar online che renderebbero l’aggiornamento facilmente disponibile ed a prezzi pari allo zero o molto contenuti.

In tal senso, ad esempio le principali Università del mondo si stanno affacciando a questa tipologia di servizi facendo rete tra loro. In Italia molto attiva è l’Università di Napoli Federico II con il suo Federica X, che ha partecipato alla prima piattaforma comune tra i più rinomati atenei del mondo circa l’apprendimento online, inserendo dei propri corsi su EDX (https://www.edx.org/course).

Bisogna comprendere che il confronto tra professionisti, fosse anche solo su gruppi tematici come quelli di Linkedin, e l’aggiornamento continuo sono le vere sfide per le imprese e il mantenimento della competitività. Non si può delegare un aspetto così essenziale alle singole iniziative di buon senso delle persone, ma farsi promotori di questa nuova mentalità.

Si deve comprendere che attingere sempre a professionisti già formati ha un costo, in quanto questi professionisti qualificati vanno sottratti ad altre imprese e dunque bisogna offrire benefit ed economics più elevati. Inoltre non è detto che tale strategia porti a risultati certi, perché bisogna considerare culture aziendali compatibili e ambienti, in cui la risorsa riesca a raggiungere performance elevate.

Certamente l’utilizzo assiduo di forme di contratto flessibili non aiuta questo processo di “matrimonio” tra lavoratore e azienda. Infatti al contrario può aumentare l’incertezza e riduce in alcuni casi la propositività del lavoratore, che non si “sforza” più di tanto per lavorare in una azienda e tentare di elevare il livello ed innovarla. L’attesa comune di chi lavora con queste forme di lavoro flessibile è che il comportamento aziendale sarà quello di non confermare la risorsa, dunque si lavora solo per segnare esperienza di lavoro in più nel curriculum e per andare successivamente a rivendersi sul mercato.

Finché dunque le aziende propugneranno questi comportamenti, che saranno plausibilmente attesi dai lavoratori, ci sarà un’emorragia continuo dei capitale umano e perdita di potenziale per le aziende.

 

RELATED ARTICLES

LEAVE A REPLY

Please enter your comment!
Please enter your name here

Most Popular

Recent Comments